Under, seniores e old

Si è svolta a Paola, nella magnifica cornice dello stadio Tarsitano, una singolare partita di Rugby.

Sono scesi in campo rugbisti d’età diverse, dai sedici anni ai sessantuno anni, 40 amanti della palla ovale si sono incontrati per dimostrare che il Rugby può essere giocato a qualsiasi età.
IMG_0219IMG_0222IMG_0243La squadra locale, l’ASD RUGBY PAOLA, ha già dimostrato che il Rugby non è uno sport per soli uomini creando la sezione femminile delle Black Reeves. Ha anche dimostrato che non necessariamente bisogna essere grandi e grossi: in squadra coesistono fisici di 50kg per 1 metro e sessanta, con fisici di 130 kg.
Domenica 5 Maggio, l’ASD RUGBY PAOLA ha ospitato tra le sue fila una selezione dei Briganti Old Rugby Cosenza. Una compagine formata da chi ha fatto la storia del Rugby a Cosenza e dintorni.
Old rugby club è l’appellativo dato alle moltissime società e squadre di rugby italiane formate da giocatori over 35 (detti appunto “old”). L’Old Rugby è una forma di gioco che permette a giocatori di diverse età di giocare assieme compensando la diversa capacità fisica.
IMG_0387 copiaUna splendida giornata di sport che dopo la partita ha visto un terzo tempo bagnato da litri di birra, a seguire “panino sanizzo” in fiera. Tutti insieme, poi, in piazza per assistere al concerto dei Rezophonic.

Da www.sbirciapaola.it

Lo sport è (S)tato

Il rugby, prima di essere uno spot, prima di essere giocato è una malattia.
L’unica cura per guarire questa malattia è un campo da gioco, poterlo toccare con mano, calpestarlo, sentirne terra ed erba, quando c’è, sotto le scarpe, tra i tacchetti e a volte anche sotto i piedi scalzi, come quando d’estate, la malattia avanza il suo stadio e si avverte il bisogno di restare scalzi sul tappeto fino a poco tempo prima calpestato.
Noi del Rugby Paola abbiamo tastato la sabbia come primo campo. Ebbene si, la sabbia della nostra spiaggia, perché non c’era (e non c’è ancora) un campo, e la malattia del rugby comporta l’effetto del voler stare insieme, del condividere, del supportarsi e così sotto i nostri piedi, prima della terra e prima dell’erba, ignorando le dimensioni da gioco, avevamo sabbia. Però gli spazi iniziano ad essere importanti, al loro interno ci sono quelle regole che noi ragazzi vogliamo condividere, le rispettiamo, perché esigono che prima di passare la palla indietro, dobbiamo guardare indietro, perché abbiamo una responsabilità in comune con gli altri e ignoriamo il fatto di voler andare in avanti da soli, e non possiamo farlo senza noi altri. Allora, pur di supportare queste regole, abbiamo iniziato ad essere nomadi dello sport e a spostarci dove ci fosse un campo, uno spazio da gioco, più o meno regolamentare, da poter utilizzare, per due ore, la sera, quando tutti finiamo di lavorare o studiare.
Inizia così anche l’autogestione: i pagamenti dei custodi o degli affitti di turno, le comunicazioni, chi porta i conetti, chi i palloni, le casacche e così via. Ma non è permesso restare fissi in un punto, costretti a modificare di continuo il nostro spazio che ci dona le nostre regole, che ci fa sentire responsabili, come la vita da cittadini in uno Stato e che ci fa urlare in campo la parola cardine nostra, del gruppo: sostegno, sostegno, sostegno e ancora sostegno, fino alla fine, fino ad oltrepassare la linea dal semplice nome di meta.
In questo essere ramingo ci accorgiamo che ogni paesino ha il suo assessorato allo sport, ma riflettendo anche in Provincia c’è qualcuno che si occupa di sport, come in Regione, fino a ricordare l’esistenza di un Ministero dello Sport.
Che lo sport sia Stato?
Effettivamente, come un campo da gioco, lo Stato consegna ai suoi cittadini le regole da seguire, da condividere all’interno di un territorio, di uno spazio, all’interno del quale ci sono esseri chiamati cittadini che devono svolgere delle responsabilità. Ma a dirla così, sembra che si inizi a parlare di rugby. Forse è per questo che ci siamo trovati alla ricerca di quelle regole, ma ora siamo costretti sempre a modificarne lo spazio di attuazione, riducendo i margini delle nostre responsabilità: in un campo di calcio a otto (delimitato da muretti in c.a.) le responsabilità sono minori che in uno spazio 100 x 70 metri, ti muovi meno, occupi più spazio, non apri il gioco, manchi di fantasia, manchi di dimensione della realtà. Allora il nostro nomadismo corrisponde forse ad un allontanamento dello Stato, un deresponsabilizzare, e tutti quegli assessorati preferiscono un interlocutore privilegiato, il più famoso, quello che da sempre c’è, mentre noi, quelli del rugby restiamo ad aspettare di essere cittadini, dato che siamo il fanalino di coda, siamo quelli che anche se nati nel territorio, non abbiamo il diritto di appartenergli, di non essere mai stato.
Delegare, deresponsabilizzare, assume il significato di non guardare dietro, di non guardare cosa si muove alle nostre spalle e che ci sorregge, anche se nelle corsa non vediamo, e lo facciamo solo prima di passare, indietro. Delegare, deresponsabilizzare, può significare anche dare al più forte, dare al più ricco, dare a chi consegue maggiori risultati e vittorie, ignorando magari anche la storia di questo più ricco e più forte che da risultati, da dove arriva, come sia nato e del tempo che ha avuto per svilupparsi. È una negazione della memoria. Il rugby, se c’è una cosa che si apprende sin da subito su un campo, è la responsabilità, coscienza delle regole valide in quel campo 70 x 100, ma anche all’esterno. Nel rugby la vittoria non è l’unico scopo, anzi, forse è il meno importante, è secondario, perché può arrivare solo se si gioca bene, si è uniti, compatti, sempre in sostegno del proprio compagno, si ha piena fiducia nei propri compagni e ci si diverte. Forse così arriva la vittoria, ma di sicuro arriva il momento di stare insieme alla fine, con gli avversari, altri 15 che hanno deciso di condividere le stesse regole.
Possibile che questo stare insieme, la condivisione di uno spazio non possa realizzarsi al di fuori di un singolo sport assieme agli altri sport?
Fabrizio Di Buono – ASD Rugby Paola

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L’ASD RUGBY PAOLA in posa, una delle poche volte che ha potuto “toccare” il terreno di gioco dello stadio della propria città.

Rugby LIBERA la scuola. A Paola.

Di Fabrizio Di Buono.

Rugby in questo caso vuol dire Rugby Paola.
Libera, oltre al suo significato letterale, fa riferimento a “Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, l’associazione ideata da don Ciotti.
Scuola è il campo da gioco dove Rugby Paola e Libera decidono di incontrarsi e giocare l’uno accanto all’altro. In questo caso il campo è l’istituto comprensivo Isidoro Gentili di Paola. L’incontro nasce all’interno del progetto nazionale “Regoliamoci. Dire, fare… Giocare” di Libera (insieme al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), quest’anno alla settima edizione.
Per i ragazzi del Rugby Paola, più volte impegnati in azioni sociali, si tratta di consolidare il legame con Libera, in particolare con il coordinamento di Libera Cosenza “Roberta Lanzino”, e giocare per vincere contro le mafie.
isidoro 28022013 2ok isidoro 28022013okL’idea di partecipare al percorso-progetto nasce proprio dai membri della compagine rugbista dopo aver visto l’iniziativa dal sito internet di Libera. Da qui la coscienza di vivere in un territorio bello, ma con molte difficoltà, tra le principali la presenza della criminalità organizzata, o meglio, della mafia. Accolta con entusiasmo la volontà di partecipare dal coordinamento di Libera Cosenza, i ragazzi presentano l’iniziativa presso l’Isidoro Gentili, il quale accetta di diventare il campo da gioco, con la coscienza di essere un luogo dove condividere le regole vuol dire essere bravi studenti e futuri cittadini responsabili, iniziando da adesso. Così, ecco cinquanta ore tra pratica rugbista e una teoria che mescola il campo da gioco, quello 70×100, al campo da gioco della società, dove essere cittadini è l’esaltazione della propria persona in favore della comunità.
Ma perché una squadra di rugby? Perché è il gergo del rugby che impone un impegno oltre i propri sforzi individuali per il collettivo. Perché il rugby, ciò che impone, è il sostegno del proprio compagno. Perché ottanta minuti a volte vogliono dire tanto: sacrificio, estro; mischia, confusione, regole, ordine secondo una propria funzione sociale; apertura, corsa, interruzione; sostegno, meta.
Perché giocare a rugby vuol dire spesso guardare la condizione nella quale ci si trova; e spesso guardare fuori dal campo. Guardare fuori dal campo in particolare, dalle situazioni della vita che a volte sembrano assorbire nella totalità una persona.
I ragazzi della II media (rispettivamente le sezioni A e C) dell’istituto che ha accettato di cooperare, per integrare la propria didattica, hanno avuto modo di collegare le materie che normalmente studiano con questioni apparentemente disconnesse dalla quotidianità scolastica. Obiettivo del progetto è si quello teorico di far capire ai ragazzi l’importanza della condivisione delle regole, del convivere civile, dello stare insieme in questo campo di regole, incrementando il legame sociale e costruendo comunità alternative alle mafie, ma come si esplica in pratica? Attraverso la costruzione di una figurina su un’atleta che incarni i valori etici, morali e civili nello sport come nella società, un esempio di cittadinanza attiva. È qui che l’esperienza del Rugby Paola e quella dei ragazzi dell’Isidoro Gentili si incammina lungo un percorso tra ricordo e memoria, dove i dati a volte vengono meno, ma l’esempio storico resta indelebile.
Sulla figurina dei ragazzi compare allora il Club La Plata Rugby, un’intera squadra. A motivare questa scelta, che privilegia il collettivo (si legge nell’elaborato finale), le parole dei neofiti del rugby: “non è il giocatore che fa la squadra, ma è la squadra a fare il giocatore”. Una squadra intera perché il rugby è lo sport di squadra per antonomasia. Una squadra intera perché in gruppo si opposero al regime militare argentino del 1976 (fino al 1983), e diciassette ne furono i desaparecidos che indossavano la stessa casacca da gioco, diciassette canarios  (questo è il soprannome di chi milita nel La Plata) per la maggiore ventenni.
Il rugby Paola conduce le “piccole cavie” in un viaggio nel tempo, in Argentina, tra articoli di giornali, romanzi (quale il libro di Claudio Fava, Mar del Plata), storia di resistenza ad un regime che negava ogni libera espressione e sorretto dalla paura. È un ricordo, quello di Raul Barandarian, l’unico sopravvissuto, che merita di essere narrato per diventare memoria.
Tutto inizia nel 1975, termina l’allenamento ed Hernan Rocca si dirige verso casa. In Argentina non è ancora dittatura, ma la situazione è concitata: Peròn aveva deluso le aspettative concedendo ampio spazio di manovra alle politiche di Josè Lopez Rega, suo segretario personale. La sinistra argentina chiedeva a gran voce libertà e democrazia, maggiori diritti sociali, mentre Rega creava la Triple A, l’Alianza Anticomunista Argentina, un’organizzazione paramilitare di estrema destra, che vedeva la collaborazione di diversi ex nazi-fascisti, fuggiti dall’Europa e che trovarono ricovero in Argentina. Dietro la Triple A la mano italiana di Licio Gelli e della P2. La Triple A rientrava così all’interno di un piano più vasto comandato dagli Stati Uniti d’ America, il piano Condor, con funzione di escludere le forse socialiste e comuniste dal gioco democratico. Hernan Rocca era uno studente, frequentava l’università statale e giocava a rugby. Ma il 28 marzo 1975, quando Hernan tornava dall’allenamento, venne rapito dagli uomini della Triple A. In realtà cercavano il fratello, Marcelo, che aveva la colpa di essere un montoneros, il gruppo radicale della sinistra. Lo uccisero comunque. Alla scomparsa, alla prima desapariciòn, i compagni di squadra rispondono la domenica, in campo, con un minuto di silenzio. Il minuto finisce. Ma nessuno prende la palla. Nessuno vuole iniziare la partita. Ancora un altro minuto. E un altro ancora. Saranno dieci i minuti di silenzio, dieci minuti che lanciano una chiara sfida a chi, da li a breve, effettuerà il colpo di stato e instaurerà una delle dittature più sanguinose del Sud America. La partita venne vinta dal La Plata, ma le vite dei ragazzi non saranno più le stesse: la morte di Hernan segna l’impegno politico di tutta la squadra, gettandola nell’occhio dei militari. Per la maggiore erano studenti, tutti dell’università pubblica, qualcun altro lavoratore, e tutti giocavano in un campo dove se si alza lo sguardo verso i pali di meta, sullo sfondo campeggia una villa miseria, una favela. Tutti capiscono che la partita si gioca anche fuori dal campo. Passano due anni e nel 1977 il regime militare attua la sua vendetta su quei ragazzi che volevano giocare a rugby, studiare e vivere in un Argentina migliore e che osarono sfidarli con quei dieci minuti di silenzio. La stagione 1977-78 vede l’esordio di molti giovani della squadra giovanile nel campionato di massima seria con la maglia dei canarios. Ad ogni esordio però corrisponde una scomparsa, un desaparecido. Toccò a Mariano Montequìn, Otilio Pascua, Santiago Sànchez Viamonte, Pablo Alberto Balut, Jorge Horacio Moura, Rodolfo Axat, Alfredo Reboredo, Luis Munitis, Marcelo Bettini, Abel Luis Vigo, Eduardo Navajas, Mario Mercader, Pablo Del Rivero, Enrique Sierra, Hugo Lavalle e Julio Alberto Alvarez. Dei diciassette solo il corpo di Otilio Pascua (mediano d’apertura) venne ritrovato. Il corpo riemerse dalle acque del Rio Lujan, con le braccia legate dietro la schiena e un peso attaccato ai piedi. Il campionato finì, il La Plata vince, ma vince definitivamente nel 1983, quando quel manipolo di carogne del regime militare cade, ma con se porta via oltre 30.000 desaparecidos. Questa storia, come si può vedere dalla foto che accompagna l’articolo, rischia però di svanire, una memoria che fatica ad essere tale: di alcuni ragazzi manca l’età, non si conoscono le date di nascita, resta solo nome e giorno della scomparsa.

rugby la plata completarugby la plata completaMa ricongiungiamo il tutto al Rugby Paola, a Libera e ai ragazzi dell’Istituto comprensivo Isidoro Gentile.
La storia è diventata una figurina per il concorso nazionale di Libera “Regoliamoci. Dire, fare… giocare”. Ma soprattutto ha raccolto l’entusiasmo dei ragazzi partecipanti e intestardito maggiormente la squadra paolana nel condurre le attività sociali che la vedono coinvolta se non promotrice, come spesso è accaduto.
I ragazzi di II media, tra le motivazioni riportate sulla figurina, hanno indicato il coraggio di difendere i propri sogni, continuando a vivere sotto una condizione che li spingeva ad emigrare, e il “non aver paura di chi impone la paura, come i mafiosi, e affrontarli”.
Il parallelo compiuto dai ragazzi tra dittatura e mafia è sicuramente influenzato dall’attività di Libera spiegata durante le lezioni e dal libro di Claudio Fava, ma di certo è un ottimo risultato ottenuto dagli organizzatori del corso, che hanno visto concretizzarsi molte delle spiegazioni date ai ragazzi.
Il progetto ha aperto le porte della scuola ad un’educazione solidale, della responsabilità sociale di ogni cittadino e un’educazione d’antimafia.
Rugby La Plata è diventato così un esempio di lotta, di resistenza ai soprusi, alla violenza della mafia che brucia giorno per giorno il presente di tutti. L’insegnamento da questa vicenda è duplice: da un lato è un invito a non abbandonare la propria terra, impegnandosi in prima persona per migliorarla, rispettando le regole e parteggiando per la Costituzione italiana; dall’altro il bisogno del ricordo di chi ha speso la propria vita per consegnarci una vita migliore, affinchè le memorie non vengano perdute e servano a costruire presente e futuro inseguendo l’utopia.
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Per chi volesse approfondire:

“Mar del Plata” di Claudio Fava. Un filo sottile tra ricordo e memoria.
È una storia secca, arida, come la scrittura di Claudio Fava adoperata in “Mar del Plata”. È una storia di parole semplici, dialettali, veloci, di getto e rabbia; dense e coagulate nelle lacrime che possono uscire nella lettura o nel tremolio di una gamba addormentata, che pare essere quella del mister Passarella, romanzato come personaggio, ma con una ragione vitale: “qualcuno, tra noi, dovrà pur raccontarla questa storia”. È la storia del La Plata Rugby Club. È la storia di ragazzi che giocavano a rugby; di ragazzi che lavoravano; facevano all’amore con le proprie fidanzate (scomparse con loro alcune); studenti attenti e militanti; desideravano la libertà e non le voltarono le spalle; sognavano una Argentina migliore, senza dittatura e dove poter essere cittadino.
Mar del Plata in questo libro di Claudio Fava vuol dire La Plata, città poco distante da Buenos Aires; ma Raul (Barandarian), Otilio, Santiago, Pablo il Turco, sono vite reali, com’è la storia romanzata: diciassette vite, diciassette giocatori del La Plata Rugby uccisi dal regime militare, da un mucchio di carogne nascosto dietro la bandiera argentina, ma sepolto, all’ultima partita de La Plata, quando in campo, dei titolari della squadra iniziale restava solo il capitano Raul Barandarian, l’unico sopravvissuto, con a seguito i giovani della primavera, che subentravano ad ogni desaparecido; carogne sepolte quando dagli spalti si levano le parole dell’inno “udite, fratelli, il sacro grido, libertà, libertà, libertà. Udite il rumore delle catene spezzate”. I colonnelli sono li in mezzo, cantano anche loro, ma il pubblico e i giocatori, del La Plata come del Cordoba (l’ultima squadra rivale del campionato) sanno bene a chi sono indirizzate le parole dell’inno … E che saranno rotte le catene della dittatura; sanno bene che quel grido sta seppellendo gli esponenti di quella cruenta dittatura. Un manipolo di carogne e ai ragazzi del La Plata Rugby non bastava più giocare a rugby, nonostante fossero i più forti. Potevano scegliere di partire, andare a giocare in Francia ed essere rifugiati politici. Preferirono restare, giocare in patria e lottare per le loro vite, in Argentina. Uccisi per vivere le proprie vite. Claudio Fava ha il merito con questo libro di svolgere una doppia funzione, importante soprattutto per la società italiana. Il primo merito è di aver dato agli articoli di Gustavo Veiga, giornalista del periodico argentino Pagina 12, che scoperchiò questa storia, un’anima: li raccoglie, li organizza, 17 anime in una, proprio come una squadra di rugby, più quelle dei giovani canarios che ne presero il posto. Il ricordo di Raul Barandarian diventa una memoria, riconosciuta e quindi condivisa. Il secondo merito, che riguarda la società italiana maggiormente, è quello di dare un messaggio di resistenza quando un manipolo di carogne sembra aver in pugno la vita e le sorti di una società, sembra essere un peso che lentamente schiaccia e riduce gli spazi d’azione degli individui. Carogne Videla e il suo manipolo di deficienti; carogne i mafiosi. Nella postfazione di Mar del Plata, Fava incide questo concetto: quei ragazzi decisero di giocare nella loro terra, pur sapendo che la loro militanza avrebbe potuto portarli all’incontro con la morte. Stessa cosa si verificò per gli agenti della scorta di Paolo Borsellino, che rinunciarono alle ferie per far da scorta al loro giudice, incontrando la morte in Via D’Amelio. Ma manipolo di deficienti sono gli scagnozzi di Santapaola, incluso lui stesso, Nitto, che uccisero Pippo Fava, padre dell’autore; carogna il “re del pesce” Muto che uccise Giannino Losardo, carogne i caporali di Rosarno, carogna il boss che gira a braccetto il giorno di vecchie elezioni a San Lucido con chi vincerà quell’elezioni. Carogna chi è con loro e si appoggia a loro per arrivare al potere. Potremmo anche noi intonare le bellissime parole dell’inno argentino, fino a rompere le catene, ma non è l’inno delle carogne mafiose e allora non ci resta che ricordare, assieme ai diciassette del La Plata, i morti ammazzati dalla mafia, dare memoria giorno per giorno a quei nomi, fino a dargli volto e corpo, e sorridere, sorridere di queste carogne per disprezzo; e continuare a giocare (leggi vivere) come facevano quei ragazzi in Argentina, che dopo un minuto di silenzio, divenuto dieci minuti, per ricordare il compagno di turno scomparso (si iniziò nel 1975, il 28 marzo, con Hernàn Rocca), si liberavano in una sorridente furia che travolgeva avversari e pubblico.

Rugby, tra velocità e potenza: uno sport da superatleti

ATLETI COMPLETI — “Il gioco del rugby, uno sport complesso, che richiede grande equilibrio fra tutte le qualità fisiche e contemporaneamente uno sviluppo specifico di determinate caratteristiche atletiche in base al ruolo, si è evoluto in maniera importante negli ultimi anni – precisa Pasquale Presutti, allenatore delle Fiamme Oro Rugby, la squadra del Gruppo sportivo della Polizia di Stato. Per renderlo sempre più attraente, sicuro e spettacolare sono state ridotte le fasi statiche, aumentato il tempo di gioco effettivo, richieste maggiori fisicità e dinamicità, nonché un’attenzione sempre più accurata alla tecnica individuale, ma anche introdotte regole finalizzate a salvaguardare l’incolumità dei giocatori, specie di quelli di prima linea, più soggetti in mischia a infortuni. Oggi troviamo in campo dei centri e dei trequarti, coloro che sino a pochi anni fa non superavano i 70 – 80 chili, che vanno tranquillamente oltre i cento, ma con quell’agilità e velocità tipica di chi possiede una costituzione molto meno aitante. E’ evidente – prosegue Pasquale Presutti – che per arrivare a creare il ‘rugbista ideale’, forte e resistente, ma anche potente, veloce e reattivo, ci deve essere la volontà del giocatore di migliorarsi allenamento dopo allenamento sia fisicamente che tecnicamente, la sua capacità di mettersi sempre e comunque a disposizione del gruppo e dello staff, la sua accettazione alla lotta e al combattimento senza mai mostrare all’avversario che il colpo ricevuto ha prodotto delle conseguenze. I nostri giocatori delle Fiamme Oro, tutti poliziotti arruolati mediante concorsi dedicati all’ingresso nel G.S. Fiamme Oro, per arrivare a questo grado di eccellenza, si allenano due volte al giorno con, durante il campionato, il solo mercoledì di riposo. Tra una seduta di pesi in palestra e la normale routine di doppio allenamento sul campo, i ragazzi sono continuamente monitorati dallo staff medico, dai preparatori atletici e nulla è lasciato al caso, neanche dal punto di vista alimentare e del recupero post gara”.

NON SOLO FORZA — “Il rugby è uno degli sport più complessi da praticare e allenare – ci dice Riccardo Di Maio, preparatore atletico del XV cremisi – in quanto in un’unica azione di pochissimi secondi possono essere richiesti contemporaneamente forza, velocità, lotta, cambi di direzione, accelerazioni. A tutto ciò si deve aggiungere che ogni singolo ruolo prevede delle qualità specifiche. Per intenderci un pilone, impegnato in prima linea in mischia, dovrà sviluppare maggiormente la forza rispetto a un estremo, cui viene invece richiesta soprattutto una corsa potente con angoli penetranti. Ma non è tutto. Forza, velocità e potenza, allenate sia sul campo, sia in palestra, devono essere sempre al servizio del gesto tecnico. Per intenderci, non è sufficiente che i muscoli diventino forti, devono essere anche ‘intelligenti’ e in grado di adeguarsi in tempi brevissimi alle varie situazioni di squilibrio motorio che vengono a crearsi di volta in volta in campo. Un obiettivo che raggiungiamo grazie soprattutto all’allenamento propriocettivo, utilizzando, tra gli altri attrezzi, anche il images, una sorta di cuscino pneumatico in gomma con forma ogivale, quindi panciuto al centro e con i bordi sottili, che essendo particolarmente instabile stimola la reattività neuromuscolare. Una metodologia di allenamento che ha portato a una riduzione delle lesioni muscolari di ben il 72%”.

PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI. — “Vorrei comunque precisare -– evidenzia l’allenatore Pasquale Presutti – che, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, il rugby non risulta essere statisticamente più pericoloso di molti altri sport, come ad esempio il football americano, l’hockey su ghiaccio e i tuffi che, in questa speciale classifica, lo precedono. Ma anche il calcio, il nostro sport più seguito e praticato, da una recente ricerca risulta avere un numero di infortuni di lunga degenza decisamente superiore. Uno studio di J. Orchards (UNSW Sports Medicine Unit) realizzato per conto dell’Australian Rugby Union e del NSW Sporting Injuries Comittee, ha messo in luce come, per ridurre l’incidenza e la gravità degli infortuni, sia indispensabile preparare bene gli atleti nelle qualità che ho già descritte e nell’esecuzione del corretto gesto tecnico. Tant’è che, dai dati che analizzano l’incidenza di infortuni per partita, le categorie di livello inferiore hanno una percentuale di traumi sia superiore, sia più gravi, con una media sensibilmente maggiore nel terzo e ultimo tempo di gioco, ovvero quando gli atleti sono più stanchi”.

L’AIUTO DALL’HIGH-TECH — “Durante gli allenamenti e le partite i giocatori sono monitorati tramite apparecchiature GPS – specifica Riccardo Di Maio -, dei particolari piccolissimi ricevitori da loro indossati sotto le maglie, in grado di raccogliere una serie di dati quali: velocità, impatti, potenza metabolica, numero di sprint, numero di accelerazioni e decelerazioni, metri percorsi ad alta intensità al minuto, cambi di direzione, distanza percorsa e molto altro. In sostanza, si tratta di un’osservazione scientifica estremamente reale, in quanto fatta direttamente sul campo e non in laboratorio. L’utilizzo da parte dell’allenatore di questi dati, unitamente ad altri tipi di valutazione, vedi ad esempio analisi video, permette di valutare in modo più oggettivo il lavoro settimanale e le performances agonistiche, favorendo una preparazione atletica e tecnica calibrate sulle esigenze individuali e, di conseguenza, più efficace per il rendimento complessivo del gruppo”.

Tratto dalla Gazzetta dello Sport del 12/04/2013 – Mabel Bocchi

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UNA LETTERA DI UN RUGBISTA SCOMPARSO

In questa lettera voglio parlarti anche di rugby: sarà una cosa abbastanza lunga, ma voglio che tu senta quello che io sento, che tu capisca quello che penso quando spesso sto da solo e non con gli altri in classe, voglio che tu mi comprenda. Quando uno ti dice che gioca a rugby in genere tu pensi: “Ma chi è questo? ma è scemo a praticare uno sport che non gli dà niente?”.
Mi dà tanto, invece, veramente tanto. Il mondo del rugby ha sempre avuto contro estremisti, delle cui opinioni si nutre, traendone linfa vitale per la propria esistenza; la stampa, sempre in malafede, che dedica al rugby sempre solo due righe, ma quando qualche volta si verificano risse generali o episodi di cronaca nera gli articoli diventano di 4 colonne, in neretto, tendenti palesemente a screditare il rugby e il suo mondo.
Perchè non cercano invece di convincere se stessi prima di tutto e poi i lettori che il rugby, uno sport sopravvissuto in queste condizioni nei secoli, si nutre dell’esaltazione dei valori più nobili della personalità umana? E poi l’indifferenza della massa, lo stereotipo divulgato che è quello rugby = sport violento (…).
La grande colpa della società è quella di non aver capito che il rugby lo si raggiunge solo con grande sofferenza e sacrificio: non è cosa da persone normali. Infatti non è solo eccellenza atletica, ma anche coraggio, fatica, sprezzo del pericolo, sforzo fisico e psichico immenso. Placcare e essere placcati, fare decine di mischie chiuse e aperte non è cosa da tutti, non si può mettersi da parte quando la lotta e l’impegno per la conquista del pallone diventano più accesi. Il gioco è spietato nella sua continuità, quante volte abbiamo visto degli avanti boccheggianti per una serie di mischie o di touches correre lo stesso sul punto dove il pallone sarà di nuovo giocato, sentirsi morire, ma non cedere un palmo di terreno, per non perdere la faccia davanti ai compagni, per non essere considerato un vigliacco, per non mancare alla parola di impegno data all’inizio, “fino allo spasimo, fino all’ultimo respiro, fino all’ultima goccia di sudore”.
Cadi, il contatto per terra non è precisamente una piuma, ma con una smorfia di dolore serri i denti e dici: “Non è nulla, passa subito, devo continuare a tutti i costi”. Solo chi ha giocato a rugby può capire simili drammi, che hanno qualcosa di sovrumano, eppure sono ingredienti costanti di ogni partita, qualsiasi sia il suo livello e la posta in palio. Chi esce da un incontro ha dato tutto se stesso, non ha nemmeno la forza di parlare, sogna soltanto il momento beato in cui sarà sotto il getto caldo e ritemprante della doccia. Il rugby non è esaltazione come il calcio (…), un rugbysta dopo aver segnato una meta, al massimo riceve un abbraccio dal compagno più vicino o una pacca sulle spalle, secondo me non esiste premio più gratificante di questo. (…)
Un rugbysta è leale, coraggioso e ricco di personalità, oltre che altruista, perchè una squadra di rugby è formata da un gruppo saldo e omogeneo di amici e compagni (come poi confermato da legami indistruttibili nella vita civile), perchè si gioca, si vince o si perde tutti inseme. A fine stagione si fanno feste e cene, si è tutti amici, si vorrebbe che il tempo non passasse mai. A volte un grande dolore colpisce l’ambiente, ci si ritrova commossi all’estremo saluto e si vive per qualche attimo come in una fossa, con visi incredibili, poi la vita riprende il suo corso e si torna al campo sportivo, dove i figli occupano il posto dei padri per la gloria della squadra, di stagione in stagione, di vita in vita.
Questa è la splendida realtà del rugby. Simili contrasti hanno prodotto una razza inossidabile nei tempi, quella del rugbysta. Abbiamo contratto le febbre ovale, ci è entrata nel sangue come e più del bacio di una ragazza, e non riusciremo più a togliercela di dosso, serpeggierà sotto la pelle tutta la vita.
L’indifferenza della massa non ci sfiora minimamente, cerchiamo solo la compagnia e la solidarietà dei nostri simili, sentiamo che il rugby non è solo uno sport, ma il più bello di tutti, uno stile di vita, una scuola di comportamento e di etica. Il rugby con la sua intima filosofia può essere apprezzato solo da chi lo pratica o lo ha praticato, solo un rugbysta può capire perchè il suo fascino non l’abbandonerà mai, perchè tutti i rugbysti di una squadra sono come fratelli, perchè il ricordo di una dura partita, di un coro sfrontato e di risate sarà sempre ricordato con immenso piacere. Gioco anch’io, ci sono anch’io, faccio rugby, ho veri amici, fidati, quelli che il rugby mi ha dato.
Ecco, il rugby è tutto questo, e anche di più, qualcosa che nemmeno io so spiegare, qualcosa di bellissimo.