Di Fabrizio Di Buono.
Rugby in questo caso vuol dire Rugby Paola.
Libera, oltre al suo significato letterale, fa riferimento a “Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, l’associazione ideata da don Ciotti.
Scuola è il campo da gioco dove Rugby Paola e Libera decidono di incontrarsi e giocare l’uno accanto all’altro. In questo caso il campo è l’istituto comprensivo Isidoro Gentili di Paola. L’incontro nasce all’interno del progetto nazionale “Regoliamoci. Dire, fare… Giocare” di Libera (insieme al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), quest’anno alla settima edizione.
Per i ragazzi del Rugby Paola, più volte impegnati in azioni sociali, si tratta di consolidare il legame con Libera, in particolare con il coordinamento di Libera Cosenza “Roberta Lanzino”, e giocare per vincere contro le mafie.
L’idea di partecipare al percorso-progetto nasce proprio dai membri della compagine rugbista dopo aver visto l’iniziativa dal sito internet di Libera. Da qui la coscienza di vivere in un territorio bello, ma con molte difficoltà, tra le principali la presenza della criminalità organizzata, o meglio, della mafia. Accolta con entusiasmo la volontà di partecipare dal coordinamento di Libera Cosenza, i ragazzi presentano l’iniziativa presso l’Isidoro Gentili, il quale accetta di diventare il campo da gioco, con la coscienza di essere un luogo dove condividere le regole vuol dire essere bravi studenti e futuri cittadini responsabili, iniziando da adesso. Così, ecco cinquanta ore tra pratica rugbista e una teoria che mescola il campo da gioco, quello 70×100, al campo da gioco della società, dove essere cittadini è l’esaltazione della propria persona in favore della comunità.
Ma perché una squadra di rugby? Perché è il gergo del rugby che impone un impegno oltre i propri sforzi individuali per il collettivo. Perché il rugby, ciò che impone, è il sostegno del proprio compagno. Perché ottanta minuti a volte vogliono dire tanto: sacrificio, estro; mischia, confusione, regole, ordine secondo una propria funzione sociale; apertura, corsa, interruzione; sostegno, meta.
Perché giocare a rugby vuol dire spesso guardare la condizione nella quale ci si trova; e spesso guardare fuori dal campo. Guardare fuori dal campo in particolare, dalle situazioni della vita che a volte sembrano assorbire nella totalità una persona.
I ragazzi della II media (rispettivamente le sezioni A e C) dell’istituto che ha accettato di cooperare, per integrare la propria didattica, hanno avuto modo di collegare le materie che normalmente studiano con questioni apparentemente disconnesse dalla quotidianità scolastica. Obiettivo del progetto è si quello teorico di far capire ai ragazzi l’importanza della condivisione delle regole, del convivere civile, dello stare insieme in questo campo di regole, incrementando il legame sociale e costruendo comunità alternative alle mafie, ma come si esplica in pratica? Attraverso la costruzione di una figurina su un’atleta che incarni i valori etici, morali e civili nello sport come nella società, un esempio di cittadinanza attiva. È qui che l’esperienza del Rugby Paola e quella dei ragazzi dell’Isidoro Gentili si incammina lungo un percorso tra ricordo e memoria, dove i dati a volte vengono meno, ma l’esempio storico resta indelebile.
Sulla figurina dei ragazzi compare allora il Club La Plata Rugby, un’intera squadra. A motivare questa scelta, che privilegia il collettivo (si legge nell’elaborato finale), le parole dei neofiti del rugby: “non è il giocatore che fa la squadra, ma è la squadra a fare il giocatore”. Una squadra intera perché il rugby è lo sport di squadra per antonomasia. Una squadra intera perché in gruppo si opposero al regime militare argentino del 1976 (fino al 1983), e diciassette ne furono i desaparecidos che indossavano la stessa casacca da gioco, diciassette canarios (questo è il soprannome di chi milita nel La Plata) per la maggiore ventenni.
Il rugby Paola conduce le “piccole cavie” in un viaggio nel tempo, in Argentina, tra articoli di giornali, romanzi (quale il libro di Claudio Fava, Mar del Plata), storia di resistenza ad un regime che negava ogni libera espressione e sorretto dalla paura. È un ricordo, quello di Raul Barandarian, l’unico sopravvissuto, che merita di essere narrato per diventare memoria.
Tutto inizia nel 1975, termina l’allenamento ed Hernan Rocca si dirige verso casa. In Argentina non è ancora dittatura, ma la situazione è concitata: Peròn aveva deluso le aspettative concedendo ampio spazio di manovra alle politiche di Josè Lopez Rega, suo segretario personale. La sinistra argentina chiedeva a gran voce libertà e democrazia, maggiori diritti sociali, mentre Rega creava la Triple A, l’Alianza Anticomunista Argentina, un’organizzazione paramilitare di estrema destra, che vedeva la collaborazione di diversi ex nazi-fascisti, fuggiti dall’Europa e che trovarono ricovero in Argentina. Dietro la Triple A la mano italiana di Licio Gelli e della P2. La Triple A rientrava così all’interno di un piano più vasto comandato dagli Stati Uniti d’ America, il piano Condor, con funzione di escludere le forse socialiste e comuniste dal gioco democratico. Hernan Rocca era uno studente, frequentava l’università statale e giocava a rugby. Ma il 28 marzo 1975, quando Hernan tornava dall’allenamento, venne rapito dagli uomini della Triple A. In realtà cercavano il fratello, Marcelo, che aveva la colpa di essere un montoneros, il gruppo radicale della sinistra. Lo uccisero comunque. Alla scomparsa, alla prima desapariciòn, i compagni di squadra rispondono la domenica, in campo, con un minuto di silenzio. Il minuto finisce. Ma nessuno prende la palla. Nessuno vuole iniziare la partita. Ancora un altro minuto. E un altro ancora. Saranno dieci i minuti di silenzio, dieci minuti che lanciano una chiara sfida a chi, da li a breve, effettuerà il colpo di stato e instaurerà una delle dittature più sanguinose del Sud America. La partita venne vinta dal La Plata, ma le vite dei ragazzi non saranno più le stesse: la morte di Hernan segna l’impegno politico di tutta la squadra, gettandola nell’occhio dei militari. Per la maggiore erano studenti, tutti dell’università pubblica, qualcun altro lavoratore, e tutti giocavano in un campo dove se si alza lo sguardo verso i pali di meta, sullo sfondo campeggia una villa miseria, una favela. Tutti capiscono che la partita si gioca anche fuori dal campo. Passano due anni e nel 1977 il regime militare attua la sua vendetta su quei ragazzi che volevano giocare a rugby, studiare e vivere in un Argentina migliore e che osarono sfidarli con quei dieci minuti di silenzio. La stagione 1977-78 vede l’esordio di molti giovani della squadra giovanile nel campionato di massima seria con la maglia dei canarios. Ad ogni esordio però corrisponde una scomparsa, un desaparecido. Toccò a Mariano Montequìn, Otilio Pascua, Santiago Sànchez Viamonte, Pablo Alberto Balut, Jorge Horacio Moura, Rodolfo Axat, Alfredo Reboredo, Luis Munitis, Marcelo Bettini, Abel Luis Vigo, Eduardo Navajas, Mario Mercader, Pablo Del Rivero, Enrique Sierra, Hugo Lavalle e Julio Alberto Alvarez. Dei diciassette solo il corpo di Otilio Pascua (mediano d’apertura) venne ritrovato. Il corpo riemerse dalle acque del Rio Lujan, con le braccia legate dietro la schiena e un peso attaccato ai piedi. Il campionato finì, il La Plata vince, ma vince definitivamente nel 1983, quando quel manipolo di carogne del regime militare cade, ma con se porta via oltre 30.000 desaparecidos. Questa storia, come si può vedere dalla foto che accompagna l’articolo, rischia però di svanire, una memoria che fatica ad essere tale: di alcuni ragazzi manca l’età, non si conoscono le date di nascita, resta solo nome e giorno della scomparsa.
Ma ricongiungiamo il tutto al Rugby Paola, a Libera e ai ragazzi dell’Istituto comprensivo Isidoro Gentile.
La storia è diventata una figurina per il concorso nazionale di Libera “Regoliamoci. Dire, fare… giocare”. Ma soprattutto ha raccolto l’entusiasmo dei ragazzi partecipanti e intestardito maggiormente la squadra paolana nel condurre le attività sociali che la vedono coinvolta se non promotrice, come spesso è accaduto.
I ragazzi di II media, tra le motivazioni riportate sulla figurina, hanno indicato il coraggio di difendere i propri sogni, continuando a vivere sotto una condizione che li spingeva ad emigrare, e il “non aver paura di chi impone la paura, come i mafiosi, e affrontarli”.
Il parallelo compiuto dai ragazzi tra dittatura e mafia è sicuramente influenzato dall’attività di Libera spiegata durante le lezioni e dal libro di Claudio Fava, ma di certo è un ottimo risultato ottenuto dagli organizzatori del corso, che hanno visto concretizzarsi molte delle spiegazioni date ai ragazzi.
Il progetto ha aperto le porte della scuola ad un’educazione solidale, della responsabilità sociale di ogni cittadino e un’educazione d’antimafia.
Rugby La Plata è diventato così un esempio di lotta, di resistenza ai soprusi, alla violenza della mafia che brucia giorno per giorno il presente di tutti. L’insegnamento da questa vicenda è duplice: da un lato è un invito a non abbandonare la propria terra, impegnandosi in prima persona per migliorarla, rispettando le regole e parteggiando per la Costituzione italiana; dall’altro il bisogno del ricordo di chi ha speso la propria vita per consegnarci una vita migliore, affinchè le memorie non vengano perdute e servano a costruire presente e futuro inseguendo l’utopia.
Per chi volesse approfondire:
“Mar del Plata” di Claudio Fava. Un filo sottile tra ricordo e memoria.
È una storia secca, arida, come la scrittura di Claudio Fava adoperata in “Mar del Plata”. È una storia di parole semplici, dialettali, veloci, di getto e rabbia; dense e coagulate nelle lacrime che possono uscire nella lettura o nel tremolio di una gamba addormentata, che pare essere quella del mister Passarella, romanzato come personaggio, ma con una ragione vitale: “qualcuno, tra noi, dovrà pur raccontarla questa storia”. È la storia del La Plata Rugby Club. È la storia di ragazzi che giocavano a rugby; di ragazzi che lavoravano; facevano all’amore con le proprie fidanzate (scomparse con loro alcune); studenti attenti e militanti; desideravano la libertà e non le voltarono le spalle; sognavano una Argentina migliore, senza dittatura e dove poter essere cittadino.
Mar del Plata in questo libro di Claudio Fava vuol dire La Plata, città poco distante da Buenos Aires; ma Raul (Barandarian), Otilio, Santiago, Pablo il Turco, sono vite reali, com’è la storia romanzata: diciassette vite, diciassette giocatori del La Plata Rugby uccisi dal regime militare, da un mucchio di carogne nascosto dietro la bandiera argentina, ma sepolto, all’ultima partita de La Plata, quando in campo, dei titolari della squadra iniziale restava solo il capitano Raul Barandarian, l’unico sopravvissuto, con a seguito i giovani della primavera, che subentravano ad ogni desaparecido; carogne sepolte quando dagli spalti si levano le parole dell’inno “udite, fratelli, il sacro grido, libertà, libertà, libertà. Udite il rumore delle catene spezzate”. I colonnelli sono li in mezzo, cantano anche loro, ma il pubblico e i giocatori, del La Plata come del Cordoba (l’ultima squadra rivale del campionato) sanno bene a chi sono indirizzate le parole dell’inno … E che saranno rotte le catene della dittatura; sanno bene che quel grido sta seppellendo gli esponenti di quella cruenta dittatura. Un manipolo di carogne e ai ragazzi del La Plata Rugby non bastava più giocare a rugby, nonostante fossero i più forti. Potevano scegliere di partire, andare a giocare in Francia ed essere rifugiati politici. Preferirono restare, giocare in patria e lottare per le loro vite, in Argentina. Uccisi per vivere le proprie vite. Claudio Fava ha il merito con questo libro di svolgere una doppia funzione, importante soprattutto per la società italiana. Il primo merito è di aver dato agli articoli di Gustavo Veiga, giornalista del periodico argentino Pagina 12, che scoperchiò questa storia, un’anima: li raccoglie, li organizza, 17 anime in una, proprio come una squadra di rugby, più quelle dei giovani canarios che ne presero il posto. Il ricordo di Raul Barandarian diventa una memoria, riconosciuta e quindi condivisa. Il secondo merito, che riguarda la società italiana maggiormente, è quello di dare un messaggio di resistenza quando un manipolo di carogne sembra aver in pugno la vita e le sorti di una società, sembra essere un peso che lentamente schiaccia e riduce gli spazi d’azione degli individui. Carogne Videla e il suo manipolo di deficienti; carogne i mafiosi. Nella postfazione di Mar del Plata, Fava incide questo concetto: quei ragazzi decisero di giocare nella loro terra, pur sapendo che la loro militanza avrebbe potuto portarli all’incontro con la morte. Stessa cosa si verificò per gli agenti della scorta di Paolo Borsellino, che rinunciarono alle ferie per far da scorta al loro giudice, incontrando la morte in Via D’Amelio. Ma manipolo di deficienti sono gli scagnozzi di Santapaola, incluso lui stesso, Nitto, che uccisero Pippo Fava, padre dell’autore; carogna il “re del pesce” Muto che uccise Giannino Losardo, carogne i caporali di Rosarno, carogna il boss che gira a braccetto il giorno di vecchie elezioni a San Lucido con chi vincerà quell’elezioni. Carogna chi è con loro e si appoggia a loro per arrivare al potere. Potremmo anche noi intonare le bellissime parole dell’inno argentino, fino a rompere le catene, ma non è l’inno delle carogne mafiose e allora non ci resta che ricordare, assieme ai diciassette del La Plata, i morti ammazzati dalla mafia, dare memoria giorno per giorno a quei nomi, fino a dargli volto e corpo, e sorridere, sorridere di queste carogne per disprezzo; e continuare a giocare (leggi vivere) come facevano quei ragazzi in Argentina, che dopo un minuto di silenzio, divenuto dieci minuti, per ricordare il compagno di turno scomparso (si iniziò nel 1975, il 28 marzo, con Hernàn Rocca), si liberavano in una sorridente furia che travolgeva avversari e pubblico.